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Pau y Pablo, sois fantásticos.
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Pau y Pablo, sois fantásticos.
Eliot Lee Hazel Photography
Rosario Gallardo
Rosario Gallardo
Hacía ya unos meses que yo deseaba hacer una entrevista a Rosario Gallardo, bajo cuyo nombre firma una pareja de dos artistas residentes en Milán: “diveniamo una coppia perfetta condividendo la stessa curiosità spregiudicata e impietosa per la realtà”. Gracias a los dos por el permiso de reproducción de estas imágenes y por la entrevista tan generosamente concedida.
Intervista
Rosario, com’è cominciato tutto? Ci racconteresti la storia di Rosario Gallardo come artista?
Rosario Gallardo nasce il 7 Gennaio 2009; l’embrione si manifesta nel 1985 quando presi coscienza della mia passione smodata per l’obiettivo, cioè essere guardata, vista, raccontata attraverso la ripresa e la fotografia: per essere narrativa, musica, idea nel corpo e nell’azione. Ma tutto prende vita nel 1997 quando conobbi mio marito che, con la sua passione smodata per l’altro lato dell’obiettivo, costituisce il cinquanta per cento di Rosario Gallardo: così diveniamo una coppia perfetta condividendo la stessa curiosità spregiudicata e impietosa per la realtà. Con lui ho condiviso dieci anni di gestazione durante i quali abbiamo sperimentato molte forme e molti ambiti di ricerca e rappresentazione prima di dare vita a Rosario Gallardo. Dietro l’Io di Rosario Gallardo c’è un Noi, siamo io, lui prima di tutto, poi anche altri, chi partecipa, chi si vuole mischiare.
Nei prossimi mesi scriverò di più a riguardo sul mio blog, immagino fino ad annoiarvi! www.pornoguerrilla.com
Nel tuo lavoro, il tuo corpo è quasi sempre in mostra. Come vuoi rappresentare te stessa al pubblico? Cosa vuoi mostrare… o conoscere?
I’m always on display. Io sono sempre in mostra, io sono visibile perché sono il soggetto. Quello che vedi non è solo il mio corpo, sono io, è la mia ricerca. Il sole non fa bella mostra di se? Il mare, la pioggia che scroscia o un gatto a spasso nel prato non sono in mostra: esistono. La Nudità della mia figura è un argomento. Vengo rappresentata attraverso un lavoro che condivido con l’uomo con cui faccio l’amore da 13 anni e con il quale ho due figli. La mia ricerca è la sua ricerca. Non si tratta solo di come valorizzare esteticamente la mia figura ma di cavalcare assieme la pazzia creativa. Siamo quasi sempre su due fronti diversi e ciò che lui cerca e desidera trasmettere non coincide quasi mai con ciò che io cerco e desidero trasmettere, ma non per questo sono fattori antitetici, anzi, sono complementari. Rosario Gallardo rappresenta prima di tutto la possibilità della coesistenza di due punti di vista opposti e complementari. In compenso ciò che cerchiamo di esplorare ci accomuna: conoscenza ed esperienze del piacere che sta oltre la paura e l’alienazione; l’autenticità; la narrativa di ciò che è ritenuto censurabile o imbarazzante; la dialettica pornografica come mezzo di conoscenza e smascheramento della realtà del profondo e sociale; il gioco.
Nelle serie “La Frutta” e “Mugshots” così come nel corto “Will you love me just the same?” intervengono anche corpi maschili. Come vivi la differenza fra sessi? In che modo i ruoli di genere possono essere rilevanti per il tuo lavoro?
Noi adoriamo lavorare con altre persone, e per lo più si tratta di donne solo per questioni circostanziali. Fotograficamente il corpo maschile è bello e la visibilità dei suoi genitali è potente ed osteggiata molto più di quella della donna. Il cazzo in foto ha una dialettica inequivocabile e onesta, un lavoro sul nudo senza genitali è la pazzia più totale ma un lavoro che esclude solo la virilità allora è in malafede. Oltre la fisicità non vivo molto la differenza tra i sessi, mi sento molto femminile e nello stesso tempo molto maschile, fisicamente ciò che manca, se lo si desidera, lo si può sempre avere da un partner, così si è tutte e due le cose assieme. Riguardo i ruoli di genere per me è un argomento di riflessione prioritario, quotidiano, da approfondire nei set per poterne fare un lavoro fotografico e filmico sempre più aderente. Differenze di genere e divisioni sociali, relazioni amorose e sessualità sono il codice binario alla base della nostra società. La politica ha origine dal fallo eretto e da un buco di culo o vagina che sia.
Ti vedi come una performer? Perché?
Non lo so se mi vedo come una performer. Ma in qualche modo lo sono: faccio cose e innesco situazioni per creare esperienze comunicative. Ma è uno stile di vita. E’ una cosa che ho sempre fatto fin da piccolissima, con o senza macchina fotografica o pubblico che sia.
Sono figlia di due psicoterapeuti e sono cresciuta osservando il loro lavoro, conosco bene la potenza di un interpretazione e del mettersi a nudo, per chi guarda e soprattutto per chi lo fa in prima persona. Preferisco fare e proporre esperienze più che performance.
A parte le serie di foto e i testi che scrivi per il tuo blog Pornoguerrilla, fai anche performance pubbliche? Esplori altri mezzi di espressione?
Molto meno di quanto vorrei. Milano è una città provinciale e l’Italia non sta vivendo la sua massima espressione culturale, ciò rende difficile per me organizzare grandi progetti a diretto contatto con le persone. Amo Milano ma mi soffoca. Ho realizzato performance via web con l’estero con varie piattaforme di comunicazione audiovisiva. Ad esempio il video “Camgirl” è tratto da una sessione di video-chat che è la fase conclusiva di un lavoro di sei mesi su una piattaforma di video-chat erotiche a pagamento. Camgirle è un epilogo video, che oltretutto vorrei riformulare. Ho in programma sessioni dal vivo e che coinvolgano il pubblico, se hai voglia e possibilità di invitarci da te a Barcellona sarà un piacere portare i nostri augusti culi a performare nella tua città.
Che tipo di feedback ricevi? Come reagisce la gente al tuo lavoro?
Non lascia mai indifferenti. C’è chi ne rimane entusiasta e chi mi critica parecchio, a volte perfino con rancore. E’ il bello d’avere qualcosa da dire. E’ un lavoro di per se carico di significato, a tutti smuove qualcosa, non solo desiderio, ma anche sentimenti, idee, fantasie, paure o rancori profondi, cose che vanno molto oltre me. Il mio lavoro è un portale d’accesso a un mondo che va oltre e che coinvolge tutti, proprio perché dò voce e dignità espressiva a una macro sfera esistenziale che con pretese improbabili cerchiamo di occultare sistematicamente. Il cuore delle persone si apre ed è come un vaso di pandora, può uscirne di tutto!
Trovo davvero stimolante la tua riflessione sugli altri sensi (olfatto, gusto, tatto) attraverso la macchina fotografica (come estensione o protesi della vista). E’ questo che rende Clairgustance diversa dalle altre serie? Hai altri progetti di questa serie in mente?
Clairgustance è un progetto diverso dagli altri nostri lavori sotto vari i punti di vista. E’ modulare ma omogeneo, cinvolge oltre a me e a mio marito altre nove persone che si mettono a nudo e in gioco davanti ai nostri obiettivi. E’ stata un impresa nobile e fortunata.
Non sono foto di un set o di una performance, ma è un reportage di un esperienza collettiva ideata e realizzata per vivere prima che per rappresentare determinate situazioni.
Il progetto si chiamava “Il culo dove si mette il pane” ed era finalizzato a una mostra underground allestita nel giugno 2010 qui a Milano. Abbiamo realizzato sei set che corrispondevano a 6 portate di un pranzo: antipasto, primo, secondo, dolce, caffè, frutta. E’ stato il progetto nel quale più mi sono divertita. Allestivo la tavola e spiegavo agli invitati che la regola era solo quella di giocare col cibo così come non gli era mai stato permesso, di fare quello che la norma vieta, ma ognuno esattamente come e quanto gli pareva. C’è stato chi si è sporcato pochissimo e chi sembrava un bambino di due anni sguazzante nel cibo ridotto a poltiglia. Era folle, regressivo, dolcissimo. Ogni portata è stata consumata da persone diverse, solo io ero presente in tutti i set, a volte più protagonista altre molto meno. Ho scattato molte polaroid. Tutti mi hanno ringraziato dell’opportunità di giocare che gli ho allestito. Si tratta di giocare, che non è cosa banale, anzi. Ogni set prendeva la forma inerente al temperamento di chi lo animava, una specie di risonanza magnetica del mondo interiore delle persone e delle alchimie che si sono create volta per volta. Io ho guidato pochissimo e con discrezione, ero un contenitore protetto nel quale poter lasciarsi andare, perché è così che si deve fare quando un altro ti apre il suo cuore e ti lascia entrare.
Si, ho in programma un altro progetto simile, sempre col cibo, perché il cibo si presta a questo tipo di esperienza, è pornografico ma è lecito. Quindi si può facilmente proporre e rende bene, molto bene.
In uno dei tuoi post poni molta enfasi sulla tua ammirazione per Barcellona. C’è qualche progetto che vorresti organizzare qui? Stai cercando volontari?
Si, vorrei realizzare dei set a Barcellona e uno l’ho già realizzato: pure morning è scattato lì nell’autunno 2010, un altro è già in programma. Anche metà di “Will you love me just the same” è stato girato a Barcellona. Non solo Barcellona è bella e ha una bella luce, ma l’aria di libertà sessuale e creativa che si respira mi aiuta a essere più fertile e spregiudicata. Io combatto aspramente contro le mie paure e il mio censore interiore sempre, Barcellona mi aiuta. I Barcellonesi poi mi danno sempre molte gratificazioni. Volontari proponetevi, vi voglio tutti! Basta scrivere a [email protected] e concordare per il prossimo set. Apprezzo proposte non solo di volontari ma anche per location, presentazioni del progetto, mostre, festival, conferenze, seminari, feste e orge ;) Rosario Gallardo ha tanto bisogno di ampliare le sue esperienze vis à vis col mondo.
Rosario Gallardo
Entrevista con David Crespo | http://iamdavidcrespo.blogspot.com/
¿Qué ha significado o significa para ti un medio como la fotografía y el vídeo?
Mi percepción y opinión sobre la fotografía ha cambiado mucho en estos últimos tres años. Tanto el vídeo, como la fotografía son sólo dos medios en los que me siento muy cómodo. Yo trabajo mucho desde el arte de acción, y ellos me han dado la posibilidad de trabajar con la performance de una manera en la que pueda olvidarme de la presencia de un público.
¿Has encontrado en esos medios formas de expresión adecuadas a algo que buscabas entender o enseñar? O más bien ya te atraían la foto y el vídeo y solo después has descubierto que querías representarte a ti mismo?
Ahora mismo estoy realizando un Máster en Arte, Creación e Investigación en la Universidad Complutense de Madrid, pero antes de eso, estudié Bellas Artes en Pontevedra. Allí fue, donde realicé por primera vez una serie fotográfica. Era en el 2004 y yo tenía 19 años, el trabajo consistía en un reportaje de viaje en tren que realizaba de Pontevedra a Vigo. El segundo lo realicé justo después de éste, consistía en una serie de autorretratos con un torso de escayola a tamaño real.
Poco tiene que ver aquellos dos primeros trabajos que realicé con lo que hago ahora, sobre todo, porque creo que nunca volveré a trabajar en analógico y mucho menos en blanco y negro, pero se puede decir que realmente fue en ese segundo trabajo, donde empecé a utilizar mi propia imagen. Aunque nunca estuve muy seguro de lo que realmente hacía, hasta que empecé mi serie monólogo en el 2009 en la escuela EFTI de Madrid, justo acabada la licenciatura.
Para mí, monólogo es el primer trabajo que me define como artista. Se podría decir que es la llave principal a todo lo que viene después.
¿En qué medida te sientes sujeto u objeto de representación?
No me siento tanto como sujeto, me siento “David fotógrafo” o “David performer”. Cuando trabajo solo, soy el fotógrafo, el que calcula, mira, dispara. Siempre estoy muy concentrado intentando crear una imagen lo más perfecta posible. Como a un buen fotógrafo me preocupa la luz, la composición y aunque se me vea en un primerísimo plano, intento que mi figura siempre esté muy integrada en la escena.
Cuando dispongo de algún ayudante altruista, me olvido en gran parte del “David fotógrafo”, y me convierto en “David performer”, donde dejo que el “amigo fotógrafo” de ese momento, disparé las fotografías como mejor crea conveniente. Me gusta mucho esta segunda forma de trabajar, porque dejar en manos de un segundo la parte fotográfica, me ha echo moverme en una serie de imágenes que no se cierran sólo a mi manera de mirar.
¿Consideras que el exhibicionismo o el narcisismo son indisociables de tu auto-representación?
Cuando examino mi obra finalizada, no me veo nunca como un exhibicionista, pero si que lo siento en el momento de hacer la foto o el vídeo. En lo que para nada me encuentro identificado es con la idea de Narciso, pero entiendo perfectamente que pueda ver gente que lo vea de esa manera. No me disgusta que la gente saque ese tipo de interpretaciones.
La primera vez que enseñe una foto en la que aparecía desnudo pensé: tierra trágame. Muchas veces, cuando me desnudo, en realidad lo que hago es un desnudo emocional, más que físico, siempre teñido todo de una manera muy absurda o irracional para quitarle dramatismo a la imagen.
De todas formas ya hace tiempo que no me desnudo en una fotografía, vídeo o performance, porque ahora mismo me encuentro en otro momento emocional, artístico y conceptual de mi trabajo. De echo, creo que la última vez que trabajé conmigo desnudo fue en un making of bastante “informal” sobre una de mis camas de la serie Vacío, pero realmente con ese vídeo no tengo ningún tipo de intención más allá de que sea algo puntual y anecdótico, en el que hacía referencias a cosas que me parecen fascinantes como Jackass o Cam4.
¿Qué importancia tiene la serie Los Bellos Durmientes en el contexto de tu obra? Yo veo ahí una experiencia de liberación, o conversión, en todo caso algo nuevo que se abre.
Cuando empecé la serie de Los bellos durmientes, me encontraba realizando la serie monólogo.Necesitaba salir a exteriores, porque llevaba varios meses trabajando en casas de amigos, y ya me estaba asfixiando un poco. Siempre trabajo con varios proyectos abiertos a la vez, con el tiempo me he dado cuenta, de que esta es la mejor forma de no aburrirme.
LBD es de gran importancia en mi desarrollo como artista, porque es uno de mis proyectos “llave”. Fue el que me abrió la puerta al paisaje, y no sólo a un paisaje de liberación. Mis trabajos de exteriores suelen estar relacionados muchas veces a enfrentamientos conmigo mismo, preocupaciones, la soledad (algo que siempre está muy presente en mi trabajo), las ideas obsesivas, inseguridades e intentos de evasión muchas veces fracasados. Siempre jugando con el humor y lo absurdo, como forma de relacionar la vida con el arte.
A niveles más formales, LBD me ayudaron a descubrir un nuevo espacio de trabajo, el que yo denomino “espacio o paisaje de plástico”, no lugares carentes de memoria, tanto individual como colectiva, espacios periféricos de la ciudad, espacios naturales que se encuentran mutados por la proximidad de la mano del hombre. Estos “espacios de plástico” presentan un gran contraste a los espacios domésticos que suelo utilizar.
En muchos de tus vídeos (p. ej. serie “Vacío”) y en algunas series fotográficas como “Ausentes” hay un décor interior, doméstico. ¿Qué buscas al exponer y reinventar esa especie de ajuares anónimos?
Tanto Vacío como Ausentes son series que realice en espacios domésticos apropiados, es algo que empecé a desarrollar con Monólogo, me interesaba la idea de utilizar las casas de mis conocidos y de la gente cercana a mi mundo personal, como si fuesen mi taller o estudio de trabajo. Casi nunca preparo escenas moviendo el mobiliario, me interesa respetar la decoración de la casa a “mancillar”, para mi eso es muy importante.
De alguna manera esta “ocupación” de casas se puede identificar de alguna manera como una marca de territorio, en un espacio, que no es el mío. Trabajar así, ha sido la manera perfecta de adentrarme en un gran número de historias particulares que me creado en mi cabeza. Por supuesto siempre hay casas que dan más juego que otras, y también hay casas que te piden a gritos que le hagas algo, sobre todo cuando te hallas en una casa, donde todo está absolutamente colocado y parece que reina la perfección.
Una de las cosas que me interesa transmitir con mis diferentes trabajos de casas es, que nunca hay casas perfectas, ni vidas cien por cien ejemplares, lo que uno haga detrás de la puerta de ella puede ser toda una sorpresa.
Las frases que acompañan “Monólogo en paisaje de plástico” y las de “Monólogos” parecen tener funciones muy distintas. En general tus títulos aportan mucho más que un efecto de subtitulado. ¿Quieres decir algo acerca del discurso verbal en tu obra?
Los textos de las fotografías no son títulos, son parte de la imagen final de la obra.
Las fotografías son imágenes que carecen de significado hasta que un espectador llega y le da uno. Cuando realice Monólogo, pude observar que había gente a la que le costaba mucho buscar un significado a mis fotos que les convenciese o les pareciese coherente. No entendía porque la gente necesitaba que le llevase de la mano a un discurso claro y conciso, por lo que empece a añadir textos que yo extraía al azar de mi teléfono móvil en las fotografías. La relación entre fotografía y texto es absolutamente nula, pero mi sorpresa fue observar, que tras la relación absurda entre ambos signos, la gente era capaz de comprender el significado de toda la obra. Ahí se encontraba lo verdaderamente absurdo, pero para ellos eso era lo absolutamente lógico.
El espectador siempre tiene que entender lo que está viendo, y si no lo entiende siempre le echará la culpa al artista.
¿Hay alguna clase de efectos o lecturas que te desagradaría que tu obra suscitara, por ejemplo que se considere que hay en ella elementos de la pornografía? ¿Suelen hacerte objeciones impertinentes?
En el poco tiempo que llevo trabajando creo que me han interpretado un gran número de lecturas e interpretaciones sobre mi trabajo muy dispares, algunas bastante sorprendentes y otras muy graciosas. Yo siempre estoy dispuesto a escuchar a todo el mundo, aunque sea para ponerme a parir, como alguna vez me ha ocurrido. Creo que todo el mundo tiene derecho a opinar, otro asunto es el caso que yo les haga después.
Por lo general no me suelen hacer objeciones impertinentes, más bien proposiciones un poco raras, que por supuesto me encantan. Soy muy dado a crearme y a provocar situaciones extrañas, donde mi trabajo se mezcla con mi vida personal.
Hay una performance en la que describes un modo de hacer: alguien queda contigo en una estación de metro, te sigue, etc. ¿Es un deseo de hacer tu obra más permeable a la alteridad, a lo extraño, o de dar alas a lo imprevisible? ¿Hay algo más en juego? ¿Es puro juego?
Esa obra de la que hablas es una performance que realice a dúo con un amigo. Yo dirigía la primera parte, con las pautas que se pueden leer en el blog y él se encargaba de rematarla a su interés. Fue algo muy experimental, realmente no tenía grandes pretensiones, me interesaba ver que ocurría, y ver si de ahí podía sacar algo nuevo en lo que poder meter la cabeza.
Por supuesto lo imprevisible como tema me gusta, verte en situaciones extrañas, que a poder ser no sean muy perjudiciales, y ver que puedes sacar de ello.
En las performances con/sin calzoncillos supuestamente de otros, incluso asociados a nombres masculinos, yo leo una crítica a la propiedad privada, quizás al asco o al pudor. Siendo tú el primer espectador de tu obra, ¿donde situarías su potencial subversivo?
El calzoncillo es la prenda más íntima del hombre, por esa razón se me ocurrió que podía pedirles los calzoncillos a los hombres que se cruzan en mi vida: amigos, compañeros etc. Para usarlos durante un día entero. Más que una fotografía, vídeo o texto, lo que más me interesaba de mi proyecto Tuyos, Míos y Nuestros era la experiencia de realizar ese acto “no cotidiano”.
Creo que el proyecto habla muy bien de lo que son las relaciones humanas, otro tema que me interesa mucho, y de las múltiples maneras en las que puedes conectarte con otro. Un contacto, una caricia a través de una prenda de vestir.
http://iamdavidcrespo.blogspot.com/
“Kroppslotion es el nombre de una crema económica con un envase más bien elegante. En este contexto Kroppslotion no es un cosmético sino un atípico chico sardo que decidió, en una tarde calurosa hace algún tiempo, adquirir por pocas libras la ya citada loción para el cuerpo – atraído por las líneas modernas de la botella de plástico azul y no prestando atención a uno de los consejos más preciosos de su madre, “el envase no hace el cosmético”. Como siempre, tenía razón: después de habérsela aplicado, se llenó de molestas manchas rojas, transformándose en una versión en carne y hueso de Pimpa.
“Es una alergia” dijo su dermatólogo, añadiendo prontamente: “Son 70 libras”. “Seguro que es la crema más cara que alguna vez habrá producido el I**a”, pensó el pobre muchacho.
Esto explica la elección de la curiosa palabra sueca como nombre del propio alter ego.
Giovanni aka Kroppslotion es originario de una bellísima isla del Mediterráneo aunque muchos, a menudo, creen que sea extranjero por su piel y los cabellos claros. Licenciado en Lenguas para la Mediación Lingüística, se inicia en el amor por la fotografía por primera vez cuando, con tan solo trece años, coge en sus propias manos una Polaroid.
A través de la fotografía está en posición de mediar y traducir lo que le agita la cabeza en imágenes más o menos fuera de lo común – sin embargo extremadamente lógicas. No le gustan las fotos privadas de sentido; tampoco cree que puedan existir. Cada foto debe saber contar algo de lo que está detrás del objetivo en la medida en que es el resultado de códigos, opciones que están en la base de su cultura, le gusten o no.
Hybridization (2009 – X)
Un híbrido es “un individuo generado a partir del cruzamiento de dos organismos que difieren por más caracteres” (Wikipedia). Soy un ser que mezcla textos pertenecientes a creaturas de especies distintas entre sí. Puedo ser una Geisha, un osito de peluche, una muñeca o un maniquí y a un tiempo un Faraón, un superhéroe sin perder mi identidad. El cuerpo es siempre lo mismo. Es MI cuerpo. Todo eso es posible porque soy, en el fondo, un híbrido humano. Kamen, Simning, Groda, Jagare, Tenn, Convivencia forzada y así sucesivamente son los nucleótidos que componen mi ADN. Se trata de imágenes que dicen tanto de mí, más que cuanto quisiera que las personas realmente supieran. Tampoco es necesario un científico para captar su sentido – que no es, por consiguiente, tan críptico.
Todo tuvo inicio durante mi estada en Estocolmo, en abril del 2009. Era una tarde muy fría pero decidí sin embargo dar una vuelta por la ciudad. De súbito, caminando distraído, vi mi cuerpo entero reflejado en una vitrina, con excepción de la cabeza. En su lugar, la de un maniquí. Esta imagen me impresionó y me hizo reflexionar: así nació la primera foto de la serie Hybridization. Me sentí exactamente como aquél maniquí: incómodo. Tenía un rostro constreñido y feliz como el mío; una sonrisa de plástico, como la mía: sin que nadie se percatara de nada.
Es como si hubiese iniciado una terapia que será suspendida tan pronto complete la serie en cuestión.”
http://kroppslotion.altervista.org/kroppslotion.com/Welcome.html
http://www.flickr.com/photos/kroppkakor/
Fotógrafos: Sharif Hamza, Kamil Szkopic, Tony Duran, Clément Chabernaud, Rick Day, Bell Soto, Parker Hurley, Steven Klein (antepenúltima y penúltima), Tony Ward. Blog: http://homotography.blogspot.com/
Fotografías de Zsófia Pilhál en el blog Quartos Escuros, creado y cuidado por mi amigo João Miguel Henriques.
“ama una esperanza sin cuerpo: cree ser cuerpo lo que solo es sombra”
Traducción de Francisco Serra Lopes de la versión del libro tercero de las Metamorfosis de Ovidio.
Famoso por su sabiduría, iba Tiresias por las ciudades de Aonia dando oráculos a quienes lo consultaban. La primera consulta, que habría de dar razón a su fama, se la hizo Liríope, la ninfa azul, a la que Césifo con violencia fecundó en sus aguas. Muy bella, de su útero dio a luz un pequeño que desde entonces fue digno de amor, y le llamó Narciso. Al preguntar a Tiresias si aquél que acababa de nacer gozaría de larga viejez, le reveló: “si no se conoce a si mismo…” La voz aciaga del vate le pareció vacía de sentido hasta que la realidad se lo dio a conocer. Con quince años, Césifo le añadió uno más de belleza, pero Narciso, deseado por muchos jóvenes y por muchas chicas, en su dulce figura se adornó de soberbia y ninguno ni ninguna le tocó. Un día, mientras azuzaba a unos ciervos para que cayeran en una red, se puso a contemplarlo aquella ninfa que no sabía tomar la primera palabra ni callar cuando alguien hablaba, Eco.
Eco, aunque sin cuerpo, tenía uso de voz para repetir las últimas palabras que otro dijese. Así hizo la divina Juno, a quien muchas veces retuviera Eco con sus discursos para que no llegara al monte a tiempo de sorprender a Júpiter yaciendo con otras ninfas, que así huían de la diosa. Por eso la castigó la Saturnia: “Breve uso, y mínimo, tendrás de la voz con que me has engañado” – y en efecto la ninfa no puede más que devolver, a quien hable, palabras gemelas a las últimas pronunciadas. Narciso, encendido al ver las huellas de la ninfa, las sigue y, como incendia el azufre la punta resinosa de las teas, cuanto más se acerca más se pone como un hacha. Cuantas veces hubiera querido dirigirle cálidas palabras, pero ahora su condición solo le permite duplicar lo dicho, y espera algún sonido. Lejos ya de sus compañeros, pregunta el bello joven: “¿Alguien está aquí?” y Eco: “Está aquí”. Su mirada penetrante no discierne un alma a su alrededor; deteniéndose ordena: “Ven” pero le viene “Ven” como respuesta. Y vuelve a llamar a quien se esconde: “¿Por qué huyes de mí?”, pero de ese llamado se hace eco Eco. Insiste Narciso ante una voz de la que no hay imagen: “Aquí mismo consumemos”, y ella, tan a gusto: “Consumemos” y sale al bosque para atar sus manos al deseado cuello, pero él se escapa: “Quita tus manos, antes muera yo que tu no me tengas a tu merced”, y a Eco se le escapa: “A tu merced”. El desprecio la aísla, se esconde más aún, desde entonces vive en las cavernas, sin embargo se aferra al amor y aumenta su dolor por el rechazo; su piel se arruga y su carne se disipa en el aire, no quedando más que voz y huesos, y aún estos se hacen de piedra. No se la vio nunca más por el monte pero su voz aún puede ser oída por todos. Es el sonido lo que vive en ella.
Tal como hizo con ésta, Narciso había desechado a otras ninfas, oriundas de las ondas o de los montes, y había también desechado consumar con otros machos. Por despecho, levanta entonces las manos al etéreo: “Ojalá ame así también, ¡sin dominio sobre lo que ame!” Ramnusia asintió a ese justo ruego. Había un manantial límpido, de nítidas ondas plateadas, que aún no habían tocado los pastores ni sus cabras, ni movido otra suerte de ganado, ave o bestia, o rama de árbol. Alrededor se apreciaba un césped tan fino que no podría haber admitido ningún exceso de sol. Fue aquí donde el joven, caliente y exhausto por la caza, se echó por tierra, llevado por el atractivo del lugar y por el manantial, y mientras ansia saciar su sed, otra sed se le crece, y mientras bebe, extasiado por la imagen de sus formas, ama una esperanza sin cuerpo: creer ser cuerpo lo que sólo es sombra. Estupefacto ante sí mismo, su rostro se inmoviliza como el de una estatua de mármol Pario. Contempla, su cuerpo en posición humilde, ras de suelo, una estrella duplicada – sus luceros –, unos cabellos dignos de Baco o de Apolo, unas mejillas impúberes, un cuello marfileño, una gloriosa boca, un rubor matizando la albura del candor. Admira todas las cosas que le hacen admirable. A sí mismo se desea, imprudente, se aprueba y se aprueba, se busca y se busca, en cuanto se enciende arde. En vano da besos al engañoso manantial, y en medio de ellos se ve y al intentar cogerse en sus brazos sumerge su cuello en las aguas ¡sin poder cogerse en ellas! No sabe qué ve pero se entrega a ello y aquello que engaña sus ojos es lo que los seduce. Crédulo, ¿por qué intentas, frustradamente, atrapar un fugaz simulacro? Lo que buscas no está en ningún lugar, lo que amas, una vez te gires, ya lo habrás perdido. Ese reflejo que ves es la sombra de una imagen: nada tiene de sí. Llega cuando tú llegas y ahí se queda, y se irá en cuanto te vayas, ¡si es que te puedes ir!
Ni el cuidado de Ceres ni el de descansar pueden abstraerlo de ahí, sino que fundido sobre la hierba opaca contempla a media luz la forma engañosa, y muere por sus ojos, y elevándose un poco hacia unos matorrales, tiende los brazos: “Oh espesuras, ¿habrá alguien amado de forma más cruel? Lo sabréis, vosotras que habéis sido escondite oportuno para muchos. ¿A alguien recordáis, en vuestros largos siglos, que así se consumiera? Veo y disfruto, pero no puedo llegar a eso que veo y disfruto: así tiene el engaño atrapado a un amante. Y por mucho que me aflija, no es un gran océano lo que nos separa, ni un largo camino, ni montañas, ni fuertes con sus pórticos cerrados. ¡Un agua exigua nos lo prohíbe! Deseo ser poseído, pues tantas veces hemos extendido besos a las linfas líquidas, y él otras tantas, boca arriba, avanza hacía mí con su boca. Creías que se puede tocarlo: es mínimo lo que separa a los amantes. Quien quiera que seas, ¡sal de aquí! ¿Por qué, singular muchacho, me engañas, o por quién, solicitado, te vas? Ciertamente no es mi apariencia ni mi edad lo que rehuyes, ¡y eso que también he sido amado por ninfas! No sé qué esperanza prometes con tu rostro, amigo; cuando he acercado a ti mis brazos, gratamente has acercado los tuyos, has sonreído cuando he reído yo; incluso al llorar yo a menudo he notado tus lágrimas; a mi asentimiento respondes también con señales y sospecho, por el movimiento de tu boca hermosa, que dices palabras que no alcanzan mis oídos… Éste soy yo mismo. Lo he sentido, y mi imagen no me engaña: ardo de amor por mí, enciendo llamas y las llevo. ¿Qué voy a hacer? ¿Hacerme pretendido o pretender? ¿Y ahora qué pretenderé? Lo que deseo está conmigo: pobre de mí, en mi abundancia. Oh, ojalá pudiera separarme de nuestro cuerpo, deseo un amante nuevo, de lo que amamos solo quisiera su ausencia… Las penas ya me roban el vigor, el tiempo que me queda ya no es largo, y en mi primera edad me extingo. Y para mí la muerte no es grave, que con ella mueren las penas. Quisiera que mi predilecto se quedara más tiempo. Ahora en una sola alma los dos moriremos de acuerdo.”
Esto dijo, y se volvió hacia el rostro enfermizo y con lágrimas removió las aguas y el lago, movido, le devolvió su oscura faz a la que, pareciendo huir, gritó: ”¿A dónde huyes? Quédate y no me abandones por otro amante, cruel. Que me sea lícito contemplar lo que es intocable, y saciar así mi desgraciado furor.” Y mientras a sí se plañe estando en la orilla, se quita la ropa superior y con sus palmas de mármol golpeó el pecho desnudo. Los golpes dibujaron en su pecho un rubor rosado, de modo no desemejante a aquél en que las frutas, brancas por un lado, por otro enrojecen, o a aquel tono púrpura que las uvas suelen llevar en sus varios racimos cuando todavía no están maduras. Por otro lado, el simulacro que contempló desvanecido en la onda, no lo soportó más, sino que, tan pronto como el fuego flameante consume la cera y el rocío nocturno enlanguece bajo el sol matutino, así atenuado en su amor enlanguece y poco a poco es tomado por un fuego oculto, y ya ni el color es aquella albura mezclada con rubor, ni queda su vigor y sus fuerzas y aquella visión en que, hace nada, tanto se complacía, ni siquiera su cuerpo, aquél que Eco amara otrora. Pero ella, al verlo, aunque recordándolo y estando aún irada, se condolió, y a cada “¡Ay!” del chico desgraciado, ella otro “¡Ay!” repetía, con voces ecoantes. Y cuando percutía con las manos sus brazos, ella repercutía el sonido, en un mismo duelo. “Ay, en vano, querido”, la última palabra de aquél que se contemplaba en la onda habitual, y tantas otras palabras devolvió el lugar, y dicho “adiós”, “adiós” replica Eco. Reclinó la cabeza cansada en el césped, la muerte cerró sus luceros que se maravillaban con la figura de su señor. Así también en el agua estígia se miraba cuando fue recibido en la sede infernal. Sus hermanas Náyades se golpearan en señal de duelo y depositaron los cabellos cortados a su hermano: Eco ecoa sus llantos. Ya blandían las antorchas de la pira funeraria y preparaban el féretro: el cuerpo estaba en ningún lugar; en lugar del cuerpo encontraron una flor, ceñida en medio por hojas blancas, del color del estigma del azafrán.
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Eco, figuración de lo repercutido, es el sonido-vestigio del rechazo de Narciso, la huella de su paso (que no de su pasado). Venganza del destino, invocado por la repetición (eco del hecho mismo del rechazo) tras no ser tramitados los vestigios de una analidad y una oralidad igualmente desechadas: la primera, figurada por el desperdicio de las oportunidades que regalaba la solicitud sexual de los jóvenes de ambos sexos; la segunda, por el llamado imaginario de Eco, constituído por la simbolización narcisista (si hay alguien aquí, que venga, pero no seré yo quien estará a merced de su deseo, sino ella del mío) que no logra la consumación y determina, con su rechazo, la consumición de sí mismo en la veneración de su imagen-ídolo. Prenunciada ya por su juvenil soberbia, dicha veneración parece encontrar el origen de su legado en la violencia del padre Céfiso, que le añade a sus quince años uno más de belleza intratable, insostenible, haciendo de Narciso el homme fatal (para sí mismo).
Jean Béraud, “Gloppe” (pastelería en los Campos Elíseos, Paris). 1889.
Lubin Baugin, “Le dessert de gaufrettes”, c.1630.
Francisco de Goya, “Naturaleza muerta” (1808?)
Fotografiar es lograr que la luz escriba. ¿Qué escribe la luz en las manos del talentoso David Alfaro? Quizá las respuestas sean revelaciones fugaces del deseo de quién las mira. He tejido 4 ficciones con algunas de sus fotos. Os invito a (re)conocer su trabajo: http://www.facebook.com/davidalfarofotografia